Mausoleo dei 40 Martiri

La struttura del Mausoleo è in stile neoromanico, ad unica navata ritmata da un’iterazione di archi trasversali ed è in blocchi di pietra locale squadrata (martellinati sulla facciata esterna). L’interno è illuminato da alte monofore strombate all’interno. Su tre lati, disposte su due file, si snodano le lapidi delle 40 vittime.
Il Mausoleo è inserito in un giardino in cui Porcinai ha creato una zona a prato ben delimitata nel riquadro del terreno dove sono state fucilate le 40 persone. All’interno, per ricordare le fosse dove erano stati sepolti i corpi delle vittime, si trovano due grandi aiuole rettangolari in cui le zolle di terra, visibili tra i fiori, sono quelle delle fosse originali ed i fiori rappresentano l’omaggio che la cura dei concittadini continua verso i loro cari. La presenza del prato evidenzia la drammaticità del muro contro il quale furono addossate e poi fucilate le vittime.
L’inserimento dei cipressi, quattro per delimitare questa zona e tutti gli altri che circondano il Mausoleo (in totale di 40) simboleggiano con la loro verticalità la tendenza al divino ed al trascendente dell’animo umano.

Fonte pietradellamemoria.it

I FATTI STORICI

All’alba di giovedì 22 giugno 1944, a Gubbio, in una città desolatamente deserta perché terrorizzata dal
coprifuoco e dai rastrellamenti dei giorni precedenti, 40 cittadini innocenti, tra cui due donne, venivano
trucidati per rappresaglia dall’esercito tedesco, poiché due giorni prima, nel pomeriggio del 20 giugno, in
un bar del centro – il caffè Nafissi o «de la Caterina» – era stato ucciso un tenente medico e gravemente
ferito un sottotenente da una pattuglia Gap, con una operazione eseguita da detta pattuglia fuori degli
ordini ricevuti.
Nel pomeriggio del 20 giugno, in un clima euforico e confuso, nell’illusione che i partigiani potessero
liberare la città dall’esercito tedesco, mentre un gruppo di partigiani – con i loro capi a cavallo – scendeva
verso la città dagli stradoni del monte Ingino, una pattuglia Gap – che aveva ricevuto l’ordine di recarsi in
località Mocaiana dove due o tre soldati tedeschi stavano facendo azione di saccheggio ed incutevano
terrore alla popolazione – iniziò invece in città il pedinamento dei due ufficiali tedeschi, affrontandoli nel
bar con l’esito sopra indicato: l’uccisione di uno (Kurt Staudacher) e il ferimento dell’altro (Hermann Pfeil).

Mentre i partigiani scappavano verso il monte Ingino, l’ufficiale ferito riuscì a farsi strada con la pistola in pugno e a raggiungere il comando tedesco.
La reazione fu immediata: il battaglione tedesco presente nella zona – i cui militari avevano visto la discesa dei partigiani dagli stradoni del Monte Ingino – subito piazzò cannoni, mitragliatrici, iniziando dalla piazza del Mercato sia un’intensa sparatoria verso il monte e verso diversi palazzi cittadini, sia il rastrellamento, prendendo in ostaggio gli uomini che incontravano o che trovavano nelle abitazioni.

Verso la sera del 20 giugno, sembrò che tale azione di rastrellamento per la successiva rappresaglia fosse sospesa, dopo che il vescovo mons. Beniamino Ubaldi, portatosi presso il comando tedesco situato presso l’Albergo San Marco, aveva cercato pietosamente di far ricadere su elementi slavi la responsabilità dell’uccisione del tenente medico, ricevendo da quel comandante tedesco l’assicurazione che venivano sospesi i rastrellamenti e l’azione conseguente, purché non si fossero verificati altri incidenti.


Non fu così. Qualche ora dopo la situazione precipitò. Nella notte furono ripresi i rastrellamenti. Furono
presi uomini e donne, giovani e meno giovani, alcuni rilasciati dopo interrogatori sommari, altri trattenuti.
Inutile risultò, nella mattina del 21 giugno, un secondo intervento presso il nuovo comandante tedesco da
parte dello stesso vescovo Ubaldi, il quale, resosi conto della tragedia che si stava per abbattere sulla
popolazione eugubina, non esitò a offrire sé stesso pur di salvare gli ostaggi e la città. Ebbe un rifiuto
sdegnoso.


All’alba del 22 giugno fu eseguita la rappresaglia. I quaranta designati, dall’edificio delle Scuole elementari di via Perugina, dove erano stati tenuti in ostaggio, furono condotti in un luogo poco distante, dove poi è stato costruito il Mausoleo e in una fossa, fatta scavare da altri ostaggi poco prima a ridosso del muro che ancora conserva i segni delle pallottole, legati come bestie da macello affinché non potessero fuggire, furono uccisi con scariche di mitra, poi finiti a colpi di pistola e ricoperti appena con qualche manciata di terra.
Tra le quaranta vittime ci furono due donne (madre e figlia), due non nativi del territorio eugubino (uno, un contabile di Gualdo Tadino; l’altro, un vicebrigadiere dei carabinieri, nativo di Mirto, in Sicilia); ci furono
giovani e meno giovani, studenti, operai, artigiani, contadini, un professionista, alcuni con la responsabilità di famiglie numerose.
La strage dei Quaranta Martiri produsse inevitabilmente a Gubbio polemiche a non finire, lacerazioni, un
clima pesante, che riguardò sia i rapporti tra le forze politiche antifasciste, sia i rapporti tra le famiglie dei
quaranta eugubini e ciò che era espressione del movimento partigiano.
Poiché diffusa era la convinzione dell’inopportunità delle due iniziative partigiane (sia la discesa dal monte per liberare la città sia l’attacco ai due ufficiali tedeschi presso il caffè cittadino), di conseguenza si attribuiva al movimento partigiano locale la responsabilità di aver provocato la rappresaglia tedesca.

Si chiamavano in causa sia gli esecutori materiali della sparatoria al caffè (Oberdan Belardi, Gino Ferretti,
Marino Paoletti, sfiorando anche Giuseppe Capannelli, del quale forse non si aveva una spiegazione
esauriente di quel che fece); sia il comando della Gap (Amelio Gambini); sia il comando del gruppo di
partigiani che doveva liberare Gubbio (Bruno Enei, nonché Stelio Pierangeli, il quale – come comandante
della Brigata Proletaria d’urto San Faustino – aveva impartito l’ordine di discesa); sia i vertici
dell’antifascismo locale (avvocati Gaetano Salciarini e Aldo Maria Rossi).

Fonte straginaziste.it